Alla fine del quindicesimo e nel secolo XVI, iniziò la riscoperta della trattatistica musicale greca che ebbe il proprio centro nell’ambiente intellettuale veneto attorno agli studi di Padova e Venezia.
Furono dapprima tradotti dal greco in latino per Franchino Gaffurio e, in seguito, per Zarlino i più importanti trattati teorici: per es. quelli di Aristosseno di Aristide, Quintiliano e di Tolomeo.
Il successivo passo verso una rinnovata attenzione per i testi greci nell’ambito interdisciplinare di studi filologici e musicologici fu costituito dalle indagini avviate direttamente sui codici greci che i dotti bibliofili del Rinascimento andavano ricercando nelle biblioteche di Venezia, Firenze e Roma.
E fu proprio in un codice della biblioteca Vaticana, che Girolamo Mei ritrovò gli Inni attribuiti a Mesoméde, musico greco dell’età di Adriano ( II d.C.), di cui informò Vincenzo Galilei, che nel 1581 li pubblicò nel Dialogo della musica antica et della moderna.
Pur rimanendo nell’ambito della tradizione scritta, si era passati dallo studio della recezione della teoria a quello del documento con notazioni musicale.
Oltre alle testimonianze letterarie, Girolamo Mei si era avvalso più volte anche dell’evidenza iconografica. Così egli scrive infatti in una lettera a Vettori del 4 settembre 1568:
“ Quanto alle tibie e pifferi che noi vogliam dire, destra e sinistra s’usava dire quando in medesimo sonava con due a un tratto, che così facevano qualche volta, come ancor si vede per testimonianza di scultore e medaglie antiche, delle quali l’una si teneva con la man sinistra e l’altra con la man destra, le quali due suonavano insieme”.
L’importanza dell’attestazione iconografica, quale fonte di notizie sulla prassi strumentale e sul contesto musicale greco fu sottolineata (in particolare, nella Lyra Barberina) da Giovan Battista Doni, negli anni 1632-’35. Doni, musicologo di vocazione antiquaria, studioso e diffusore tra l’altro dell’opera di Mei, riprese il discorso sull’ importanza della documentazione iconografica accanto a quella teorica per indagare la prassi strumentale e il contesto musicale greco.
L’importanza della tradizione figurativa può essere ancor più sottolineata maggiormente dal momento che lo studio della trattatistica musicale greca e dei circa 40 frammenti rimasti ha continuamente richiamato l’attenzione sull’aspetto teorico e di tradizione scritta dalla mousiché: punta significativa di un iceberg la maggior parte del quale resta invece sommersa e invisibile.
Accanto alle ricerche di etnomusicologia e agli studi recenti linguistico-filologici che tengono conto anche delle componenti di tradizione orale, la documentazione figurativa, e ceramica in particolare, può costituire un mezzo per scandagliare la fruizione musicale nella Grecia antica.
LA MUSICA
La mousiché era presente infatti in numerosissime manifestazioni dell’immaginario dell’uomo greco dall’età pre-micenea in poi, come documentano le celeberrime statuette cicladiche di marmo (datate al II millennio circa a.C.), dell’auleta e dell’arpista, riscoperte nel 1884 a Keros.
La documentazione iconografica si è conservata però con una certa continuità dal periodo dello stile geometrico in poi (II metà VIII sec.) in parallelo allo sviluppo dell’epica omerica.
Alla preziosa, seppure rara, evidenza vascolare, si affiancano le numerose testimonianze di Iliade e Odissea sul ruolo dei rapsódi (detentori dell’enciclopedia del sapere antico) e dell’assidua presenza della forminx nei momenti rituali e privati del quotidiano.
L’antico strumento a quattro corde, retto con la sinistra e pizzicato con la destra, si ritrova anche tra le mani di Femio costretto a suonare per i pretendenti di Penolope e Alcinóo lo fa portare a Demodoco, affinché intoni sulla forminx “sonora” un canto per l’ospite. Ulisse, tornato a casa, racconterà ai suoi cari quanto i Feaci siano esperti nella danza e nel canto.
Nel VII e VI sec. a.C., le testimonianze parallele della lirica monodica e corale da un lato, e della pittura vascolare dall’altro, ritraggono le ampliate dimensioni di repertorio, fruizione e pubblico della mousiché.
Un’ampia documentazione iconografica della ceramica attica dei secoli V e IV testimonia l’acquisita centralità e ricorrenza della mousiché all’interno della cultura e della società: dalla costante mitica al teatro, dagli spazi cittadini delle gare musicali e atletiche a quelli privati di simposi e kómoi.
La raccolta spinetica (collocata nel Rinascimentale palazzo di Ludovico il Moro) che contiene un
elevato numero di vasi con iconografia musicale a figure nere e rosse, appartenenti al V-IV secolo a.C.; documenta i vari contesti, con maggiore frequenza quelli mitici soprattutto dionisiaci e conviviali.
Un possibile percorso riguarda il rapporto committente- pittore- scelta del contesto musicale- destinazione del vaso, in cui va tenuta sempre presente la fisicità propria di un linguaggio figurativo artigianale, prodotto da una téchne che procede per impercettibili modificazioni del modello, realizzate dal singolo artista sulla base delle richieste del committente e della destinazione dell’oggetto. Scopo di tale indagine è una lettura contestualizzata e pienamente inserita nella catena produzione trasmissione recezione, degli elementi musicali raffigurati.
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Figura 1 - Kylix figure rosse con scena di simposio, tomba 103 B di valle Pega, Pittore di Sabouroff, 460 a.C., sala XIV, vetrina destra n. 3. |
Questi tre sviluppi del tema del simposio (fig. 1-2) sono opera del Pittore di Monaco 2335, rappresentato nella raccolta spinetica da 11 crateri di cui 8 con scene di convivio, 1 di Kómos, 1 di competizione musicale e 1 mitica con Apollo citarista tra Artemis e Hermes.
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Figura 2 - Cratere a campana figure rosse scena di simposio con suonatrice di krotala, Pittore di Monaco 2335, tomba 897 B di valle Pega, 430 a.C., sala XIV, vetrina sinistra n. 1 (fotografie archeologi Volontari del Servizio Civile).
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Se da un lato, varie auletrìdes che accompagnano le riunioni di due, tre, quattro simposiasti sono ritratte secondo un modello fisso, con lievissime modificazioni nei dettagli delle posizioni dei convitati e dell’arredo e senza alcune attenzione particolare allo strumento delle lunghe canne, ben altro rilievo assume, dall’altro, la presenza dei krótala (fig. 2), suonati durante il gioco del cóttabo e accompagnati dal passo ritmato e dalla posizione del capo, lievemente piegato in avanti, dalla suonatrice, così com’è attentamente ritratto (nell’emissione forzata del fiato), l’auleta che accompagna i passi danzanti del kómos.
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Figura 3 - Cratere a volute figure rosse con Nike alata in volo, tra le mani tiene una kithara a sette corde, Pittore di Bologna, tomba 436 di valle Trebba, 460 a.C., sala XIV, vetrina destra n. 2 (fotografie archeologi Volontari del Servizio Civile). |
La kithàra ( ritratta tra le mani del dio e del vincitore incoronato) è del medesimo tipo, eptacorde (fig. 3), suonata con il plettro impugnato dalla sinistra e retta ( tramite la cintura abituale) al fianco del suonatore. Soprattutto nei pezzi con scene simposiache, la ricorrenza delle tematiche musicali pare quindi legata alla fruizione immediata dei pezzi più che a una ricerca tematica particolare dell’autore, o a un interesse strumentale; maggiori dettagli compaiono invece là dove si accenna anche alla danza.
Agli antipodi (per la concezione primaria dello strumento) pare invece collocarsi l’opera di Pólion (pittore databile intorno al 420 a.C.) di cui un terzo della produzione conservatasi reca elementi musicali. Nel celebre cratere della sala III (tomba 127 di v. T) che ritrae la sfida tra Támiri e le Muse, informate da Apollo della vanagloria del giovane, ogni divinità è contrassegnata da uno strumento: lýra, bárbitos, kithára, aulós, arpa.
Una Musa suona un tipo particolare di kithára che (per la ricorrenza nello stesso contesto mitico in un hydría di Oxford) è denominata appunto Thámyris-kithára. Essa compare anche in un cratere a campana dello stesso Polion (conservato al Metropolitan Museum of Art di New York), in un corteo di Satiri, forse intonanti un peana o un ditirambo, in un contesto panatenaico. Dalla cassa particolarissima, incavata all’esterno a forma di semiarco, arrotondata nella parte superiore, eptacorde, la lyra di Tamiri presenta bracci arcuati e sottili. Si tratta di uno strumento semplificato rispetto alla complessa kithára apollinea, ma di analoga preziosa fruizione artistica, probabilmente espressione della raffinata téchne strumentale della fine del V sec. a. C.
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Figura 4 - Cratere a colonnette figure rosse Orfeo si difende dall'assalto delle Menadi, Pittore di Firenze, sequestro, 460-450 a.C., sala XIV, vetrina sinistra n. 4 (fotografie archeologi Volontari del Servizio Civile). |
Un altro significativo testimone della II metà del V secolo è il pittore di Orfeo,di cui sono conservati solamente 18 vasi (8 dei quali con soggetto musicale). Oltre al tópos della vittoria dell’aulódo (tema meno ricorrente rispetto alle celebrazioni degli strumentisti). Il pittore di Orfeo è presente nella ceramica spinetica per lo sviluppo del tema a cui deve il proprio nome: l’ultima difesa del cantore trace assalito dalle Menadi (fig. 4).
La funzione dello strumento e del pubblico viene ribaltata: da mezzo di estasi collettiva tra gli ascoltatori Traci, che lo stesso artista ha ritratto, la lira diviene l’estremo, debole riparo di Orfeo.
In primo piano è l’atteggiamento degli ascoltatori e delle assalitrici, come risulta dal confronto con la medesima scena sviluppata dal pittore della Dokimasía e da Hermonax. Risalta pur sempre l’elemento del pàthos presente nelle reazioni del pubblico (ammaliato dai suoni o delle Menadi incalzanti): il pittore sembra aver tentato di rendere palpabili, nelle raffigurazioni, quegli “ effetti” della musica, così presenti nella cultura del suo periodo, a cui anche Orfeo sembra appellarsi nell’estremo tentativo di difendersi contro ogni effettiva speranza. L’artista sapeva bene (come anche l’autore dell’Inno ad Hermes), che solo con quel canto che ispira passioni irresistibili è possibile raggiungere tutte insieme le tre cose: la gioia, l’amore e il dolce sonno.