Al fine di potenziare l'itinerario espositivo della mostra "Quando gli uomini non trAmano lo fanno le donne", sono stati predisposti dei contenuti speciali legati ad alcuni degli oggetti inseriti nell'allestimento permanente. Un sistema di richiami visivi, ovvero un QR Code, consente l'accesso diretto a tali contenuti originati sul sito del Museo. Con una semplice applicazione gratuita scaricabile su smartphone o tablet (applicazioni consigliate per Android: barcodescanner; per Iphone: QR reader; per ulteriori informazioni: http://www.csita.unige.it/manuali/smartphone/qrcode) è possibile puntare la fotocamera sul QR Code ed accedere alla versione integrale dei contenuti speciali.
DONNE ETRUSCHE E DONNE GRECHE
«[Teopompo sostiene che] presso i Tirreni le donne sono tenute in comune, che hanno molta cura del loro corpo e che spesso si presentano nude tra gli uomini, talvolta anche tra di loro, in quanto non è disdicevole il mostrarsi nude. Stanno a tavola non vicino al marito, ma vicino al primo venuto di coloro che sono presenti, e brindano alla salute di chi vogliono. Sono potenti bevitrici e molto belle da vedere. I Tirreni allevano tutti i bambini insieme, ignorando chi sia il padre di ciascuno di essi: questi ragazzi vivono nello stesso modo di chi li mantiene, passando parte del tempo ubriacandosi e cambiando di continuo donna. Non è riprovevole per i Tirreni abbandonarsi ad atti sessuali in pubblico o talora circondando i loro letti di paraventi fatti con rami intrecciati, sui quali stendono dei mantelli. Come tutti i barbari che abitano ad occidente, si strofinano il corpo con la pece e lo rasano. Presso i Tirreni vi sono quindi molte botteghe di specialisti per questa operazione, come vi sono i barbieri presso di noi.».
Questo celeberrimo frammento dello storico Teopompo di Chio (riportato in Ateneo XII 517d) ci offre un quadro estremamente negativo della società etrusca, almeno così come essa poteva apparire agli occhi di un greco del IV secolo (vissuto tra il 378 e il 320 ca. a.C.), la cui prospettiva risultava inevitabilmente deviata da quel caratteristico maschilismo ellenico che faceva sì che la libertà delle donne etrusche costituisse uno dei principali motivi di stupore e di biasimo.
L’ottica maschilista, ellenocentrica e moralistica dell’allievo di Isocrate tocca, tuttavia, alcuni aspetti che trovano conferma nella documentazione in nostro possesso, dalla quale traspare con chiarezza come il ruolo della donna etrusca nella società fosse tutt’altro che secondario. Sotto tale punto di vista la documentazione restituita dall’abitato e dalla necropoli di Spina offre degli ulteriori spunti di riflessione, poiché ci fornisce un inedito sguardo su di una comunità che, per molti versi, può definirsi aperta e multietnica, grazie alla sua ben nota proiezione mediterranea.
Se, infatti, la matrice culturale prevalente è quella etrusca, Spina, più di altri centri coevi dell’Etruria tirrenica, palesa una ricezione diretta di pratiche e di modelli ideologici e rituali ellenici, la cui acquisizione è il risultato di quella prolungata e approfondita consuetudine che essa ebbe con il mondo greco, assecondando una vocazione che era implicita sin dalle sue origini e che avrebbe giustificato l’erezione a Delfi di quel thesauros degli spineti ricordato da Strabone (V, 1, 7).
Tali considerazioni giustificano la scelta di inserire nell’esposizione due corredi della necropoli di Valle Trebba che si datano l’uno alla fine del V sec. a.C. (VT 1166) e, l’altro, nell’ultimo trentennio del IV secolo (VT 366), poco prima e poco dopo il periodo in cui visse il citato Teopompo.
Valle Trebba 1166
Il primo contesto, frutto di un sequestro avvenuto nel 1933, sembra poter essere riferito a una sepoltura a inumazione. Le circostanze del recupero non consentono purtroppo di disporre di informazioni in merito all’originaria composizione del corredo (circostanza che può giustificare la totale assenza di oggetti di ornamento) e al suo organizzarsi rispetto al defunto. La suppellettile conservata, tuttavia, rivela una esplicita tendenza a raggruppamenti vascolari dal carattere binario, per la presenza di set composti simmetricamente da due coppette, da due coppe, da due piatti e da quattro oinochoai, suddivisibili anch’esse in due coppie in base alle dimensioni. La scelta dei soggetti figurati, sia per quel che concerne le oinochoai che, soprattutto, per quel che riguarda il tondo centrale dei due piatti, mostra una significativa predilezione per soggetti relativi sia al mondo femminile che a quello maschile; tale scelta diviene particolarmente esplicita nel caso dei due piatti nei quali il profilo di una giovane donna con chioma raccolta entro una fascia (kekryphalos) pare contrapporsi e “specchiarsi” in quello di un efebo con i capelli trattenuti da una tenia.
Se questi ultimi vasi celano un richiamo a una unione di tipo matrimoniale essa risulta ancor più enfaticamente esplicitata dalla presenza dell’unico vaso del corredo privo di corrispettivo, il lebes gamikòs (lebete matrimoniale), da Beazley attribuito alla scuola del pittore di Meidias, il più noto e ammirato tra i ceramografi attici degli ultimi decenni del V sec. a.C. Come è stato già da tempo rilevato, esso costituisce un unicum nel pur ricco patrimonio vascolare di Spina e, più in generale, esso risulta rarissimo al di fuori dell’area di diretta influenza attica, a riprova della “specificità del suo significato, pienamente fruibile solo nel ristretto ambito ideologico attico” (Desantis 1993a).
Questo genere di vasi, menzionati anche negli inventari del tempio di Eleusi, veniva utilizzato come dono simbolico di nozze, essendo esso destinato a raccogliere le acque primaverili con le quali la sposa si lavava, secondo il costume greco, prima del matrimonio. La forma, ideata in ambito ateniese, ha la sua massima diffusione tra la fine del VI e l’ultimo quarto del IV secolo a.C.; dal punto di vista funzionale sono state avanzate diverse ragionevoli obiezioni rispetto a un suo impiego effettivo come vaso lustrale per la sua scarsa predisposizione all’atto del versare; ciò che invece è sicuro è il suo nesso con la cerimonia nuziale, cui alludono esplicitamente le scene che sovente lo adornano (e che connotano parimenti anche altri vasi legati al mondo muliebre come le pissidi), tutte connesse alla preparazione della sposa per le nozze, dalla toeletta alla processione nuziale, fino ai doni che le venivano corrisposti nel giorno detto epaulia, all’indomani delle nozze. In tal senso, dunque, vanno interpretate le scene presenti sul nostro vaso dove tre figure femminili sono raffigurate nell’atto di recare doni alla sposa (larghe bende trapunte, scrigni e un alabastron), mentre un erote (un “amorino”) si inginocchia sulle mani di una di loro e, sull’altro lato, tre Nikai (vittorie) volanti, con alabastra nelle mani, paiono portare la benedizione ai novelli sposi; tematiche che, ad abundantiam, si ripetono anche sull’alto piede a tromba del vaso, sul quale tre figure femminili recano altri doni (alabastra, bende e uno specchio).
Valle Trebba 366
Se l’assimilazione di modelli rituali e pratiche comportamentali ateniesi traspare con tutta la sua evidenza nel corredo precedentemente considerato anche in virtù dell’enfasi riposta nel celebrare quello che, nel mondo greco così come in quello etrusco, costituiva uno dei momenti cardine della vita femminile, il secondo corredo sul quale abbiamo voluto appuntare la nostra attenzione spicca senza dubbio per quanto lascia intuire in merito a un possibile ruolo “imprenditoriale” della donna che con esso era stata sepolta; testimonianza esplicita di quella autonomia femminile che, teste Teopompo, marcava la differenza tra le donne greche e quelle d’Etruria.
La tomba 366 era a inumazione con corpo orientato in senso NW-SE. Il defunto recava ancora sul collo una collana composta da 43 vaghi d’ambra cui si univa una fibula anch’essa con il corpo di ambra, elementi chiaramente riferibili a un soggetto di sesso femminile. Il corredo, piuttosto cospicuo ed eterogeneo per numero e tipologia degli oggetti, era distribuito lungo tutto il corpo, tra la spalla e il fianco destro della defunta. La lekanis, con relativo coperchio, conteneva ancora al suo interno i resti di un “pasto” a base di “pollo” e di “bue”, secondo quanto annotato dallo scavatore; due oinochoai, tre skyphoi, dieci ciotole, un boccale, un boccalino, un kyathos e un piattello su piede (sia di produzione locale che di importazione, dall’Etruria centrale e dall’Italia meridionale) completavano l’apparato del banchetto e del simposio; a una sfera lustrale, legata al carattere funerario del contesto, possono essere invece riferiti i balsamari, la lekythos ariballica, l’epichysis e il guttus, contenitori per unguenti e oli utilizzabili sia per la cosmesi quotidiana (cui si è visto alludere nei donativi raffigurati sul menzionato lebes gamikòs) che per il trattamento estremo dei cadaveri, pratica di cui la donna è incontrastata depositaria. Una cultualità che può essere ravvisata anche in oggetti come il busto di terracotta, le 34 conchiglie (glicimeridi) e i 5 astragali di bue rinvenuti nella lekanis, sebbene per la presenza di fori pervi su alcune delle conchiglie non sia da escludere anche un loro almeno parziale impiego come monili.
Al mundus muliebris rimanda invece chiaramente la placchetta in osso intagliata raffigurante una chimera, convincentemente interpretata come rivestimento di un cofanetto-scrigno ligneo (kibòtia) destinato a contenere oggetti preziosi e beni ereditari, mentre nei cilindri e nei dischetti in osso va riconosciuto quanto rimane di una conocchia, utensile legato alla filatura, una delle pratiche che maggiormente connotavano la quotidianità delle donne e che, in quanto tale, continuava ad accompagnarle anche oltre la morte.
Gli oggetti che, tuttavia, spiccano in assoluto per l’originalità sono i 6 distanziatori da fornace la cui ricorrenza in contesti funerari risulta estremamente rara e ha indotto alcuni (Patitucci Uggeri 1988) ad attribuire alla nostra defunta un possibile ruolo imprenditoriale connesso alla produzione ceramica, ipotesi da altri invece rigettata per proporre una loro possibile connessione con il “controllo del fuoco sacro che arde al centro della casa, l’eschara, di cui la donna stessa è il simbolo” (Desantis 1993b).
Comunque stiano le cose, ciò che emerge con chiarezza è il ruolo di assoluto rilievo detenuto dalla nostra defunta, nella sua casa così come all’interno della sua comunità di appartenenza; un ruolo in cui le pratiche femminili quotidiane (dalla cosmesi alla filatura) si alternavano e si compenetravano con le molteplici valenze legate alla sfera del culto, dell’alimentazione e della “produzione”, da intendere, ovviamente, non solo in termini materialmente produttivi ma anche in quelli generativi, attraverso i quali la donna, esprimendosi come moglie e come madre, assicurava con la discendenza anche la trasmissione dei beni ereditari e, in senso lato, il perpetuarsi di quel “fuoco” di cui ella era garante.
VALENTINO NIZZO
CORNELIO CASSAI C., “Ornamenti femminili nelle tombe di Spina”, in D. BALDONI (a cura di), Due donne dell’Italia antica. Corredi da Spina e Forentum, Catalogo della Mostra (Comacchio 17 luglio 1993 - 30 settembre 1994), Padova 1993, pp. 42-47 e 74-81.
DESANTIS P., “Oggetti dal mundus muliebris nei corredi di Spina”, in D. BALDONI (a cura di), Due donne dell’Italia antica. Corredi da Spina e Forentum, Catalogo della Mostra (Comacchio 17 luglio 1993 - 30 settembre 1994), Padova 1993a, pp. 33-41 e 73-74.
DESANTIS P., “Quale donna? Riflessi del mondo femminile nella sepoltura 366 di Spina, Valle Trebba”, in Studi e Documenti di Archeologia 8, 1993b, pp. 129-150.
MUGGIA A., “I ruoli sociali a Spina”, in F. BERTI, M. HARARI (a cura di), Storia di Ferrara, 2. Spina tra archeologia e storia, Ferrara 2004, pp. 271-296.
MUGGIA A., Impronte nella sabbia. Tombe infantili e di adolescenti dalla necropoli di Valle Trebba a Spina, Quaderni di archeologia dell’Emilia Romagna 9, Firenze 2004.
PARRINI A., Ω ΦΙΛΕΡΙΘ ΑΛΑΚΑΤΑ, ΔΩΡOΝ ΑΘΑΝΑΑΣ ΓΥΝΑΙΞΙΝ... Donne filatrici a Spina, in Etruria e Italia preromana”, in Studi in onore di Giovannangelo Camporeale, Pisa 2009, pp. 673-686.
PATITUCCI UGGERI S., “Evidenze tecniche della produzione ceramica a Spina in età ellenistica”, in Proceedings of the 3rd Symposium of Ancient Greek and Related Pottery, Copenhagen August 31 - September 4, 1987, København 1988, pp. 624-632.
RALLO A. (a cura di), La donna in Etruria, Roma 1989.